venerdì 22 novembre 2013



Siamo portati a vivere l’architettura, gli spazi e le funzioni che ci vengono offerti dalla società, nel modo in cui convenzionalmente dovrebbero essere vissuti. Gli spazi sbagliati in cui viviamo, per abitudine, ci portano a confondere le funzioni con cattivi modelli che la società e il mercato edilizio ci hanno imposto. Dovremmo abbandonare i modelli e le forme che associamo per consuetudine ad una funzione ma che non la rappresentano correttamente, e lasciarci guidare dalle sensazioni e dagli stimoli che quella funzione ordinaria ci trasmette. Re-invertire il processo, liberandoci da questi modelli “sbagliati” e dalle cattive abitudini divenute, per inerzia, sistematiche.


Un esempio di quanto detto risiede nel progetto presentato in occasione dell’Expo mondiale del 2008, l’esposizione universale volta al ridisegno del tessuto urbano di Saragozza, dagli architetti italiani Carlo Ratti e Walter Nicolini. Il Sindaco della città ha richiesto ai progettisti un uso innovativo dell’acqua, elemento da sempre utilizzato in architettura e in urbanistica. I due architetti hanno presentato il Digital Water Pavilion che, considerato il primo caso di impiego dell’acqua come elemento urbano, ha offerto loro l’occasione per sperimentare, grazie all’uso della tecnologia informatica, nuove “applicazioni” dell’acqua in architettura, creando spazi mutevoli, fluidi e flessibili. Il padiglione occupa una superficie di 400 mq ed è caratterizzato da una struttura portante con pareti a cascata, composte da pixel d’acqua generati da valvole solenoidi che, controllate attraverso il computer, possono assumere forme differenti a seconda delle esigenze: rispondere in maniera dinamica ai comandi dei sensori, aprendosi e chiudendosi al passaggio dei visitatori; scomparire dando luogo ad un unico grande spazio; essere percorse da testi, immagini, pattern che scorrono dall’alto verso il basso. L’effetto è quello di una cascata d’acqua che si interrompe in alcuni punti specifici, creando una sorta di schermo nel quale i pixel che disegnano le immagini non sono luminosi, ma fatti di aria e di acqua. Inoltre, il tetto metallico dell’edificio, coperto da una sottile lamina d’acqua, è sorretto da dodici pistoni idraulici in acciaio, i quali ne consentono l’abbassamento o l’innalzamento (in caso di vento eccessivo, ad esempio, per minimizzare gli schizzi) o la chiusura completa, facendo scomparire l’intera struttura a fine giornata.


Il Digital Water Pavilion era stato pensato con uno scopo: i sensori dovevano rispondere a determinati comandi, permettendo ai visitatori di “vivere” quell'architettura secondo funzioni prestabilite. E se per un attimo la “normalità” venisse meno?
L’architetto e ingegnere Carlo Ratti racconta in un’intervista: «Una sera tutti i sensori del padiglione hanno smesso di funzionare, compromettendo così il normale meccanismo della struttura». E continua: «In realtà, quella sera, il “gioco” d’acqua è stato  ancora più divertente, poiché tutti i bambini di  Saragozza sono stati incuriositi da questo modo  diverso di interagire con la struttura: le cascate  d’acqua non si aprivano più al passaggio dei  visitatori, ma creavano dei tagli e delle aperture attraverso l’acqua, nelle quali riuscire a passare senza bagnarsi». «Questo è molto interessante», conclude «perché architetti, designer ed ingegneri pensano sempre di sapere come le persone useranno le loro architetture, ma poi la realtà è imprevedibile».

Bisogna iniziare a pensare ad un’architettura che non sia semplicemente funzionale, ma che permetta di cambiare i punti di vista. Noi fruitori potremmo immaginare un nuovo modo di vivere, ripartire dai gesti che vorremmo compiere e l’architettura non sarà altro che il contenitore e il mezzo attraverso cui esprimere le nostre nuove sensazioni.
                                                                                                       


Federica Salvatore








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