Archive for 2013-12-01

Architettura: una possibilità di rinascita

“Città spazzate via dallo tsunami del marzo 2011, gente che ha perso la famiglia, gli amici, la casa. Cosa può fare l’architettura per loro?” Con queste parole l’architetto giapponese Toyo Ito presenta alla 13esima Biennale di Architettura di Venezia, Home-for-all un progetto umanitario che ha come scopo la ricerca di architetture per vivere e socializzare in territori all’apparenza inabitabili.

Il padiglione giapponese mostra un viaggio all’interno della cittadina di Rikuzentakata, scomparsa in seguito allo tsunami del 2011, e ripercorre il percorso di Home-for-all con il quale Toyo Ito, in collaborazione con i giovani architetti Kumiko Inui, Akihisa Irata, Sou Fujimoto, dimostra come sia ancora possibile abitare nei territori colpiti da disastri naturali, utilizzando le risorse disponibili e cercando di sfruttare al meglio le opportunità. L’idea è quella di abitazioni-palafitte realizzate sfruttando l’enorme quantità di tronchi d’albero disseminati dallo tsunami. A rendere particolarmente suggestiva l’installazione sono gli scatti del fotografo Naoya Hatakeyama che, posizionati lungo il perimetro del padiglione, mostrano le aree colpite prima e dopo la catastrofe. Un paesaggio fantasma, privo di edifici, alberi, persone. Gli architetti hanno instaurato un dialogo con le vittime dello tsunami, cercando con loro di ricostruire la città e aiutandole a migliorare la vita nella comunità. Il primo edificio di Home-for-all è stato realizzato a Sendai: si tratta di una piccola struttura di travi in legno tradizionale, un progetto semplice che però rappresenta una possibilità di incontro,riposo e dialogo per i cittadini. Home-for-all è un progetto che colpisce la giuria internazionale della Biennale di Architettura, al punto da guadagnarsi il Leone d’oro per la miglior partecipazione Nazionale. Un progetto che vede la collaborazione dei cittadini, che permette loro di ricominciare pur restando legati alla terra d’origine, alla storia, al passato. Un progetto che fa riflettere sul valore e sullo scopo dell’architettura, che risponde alla domanda “ Perché realizzare un’architettura? E per chi?”. Un progetto che, per una volta, mette da parte l’egoismo e in primo piano le esigenze del popolo.

Federica Salvatore

Kennedy 50 anni dopo. Cosa abbiamo perso quel 22 novembre ’63?

Teorie del complotto a parte, che cosa abbiamo perso quel 22 novembre ’63? Parliamo di storia degli Stati Uniti e in particolare di una storia che dopo 50 anni ancora non conosce la parola fine. O meglio, ancora non conosce la parola “verità”. Ci riferiamo all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, 35° Presidente degli Stati Uniti, ucciso a Dallas (Texas) il 22 novembre 1963. Nel 2013 ricorre il cinquantesimo anniversario da quel drammatico giorno e per l’occasione tutti si sono cimentati in discussioni e dibattiti incentrati sull’evento. Tutti molto contenti di poter mandare in onda programmi televisivi forniti di filmati inediti, ricostruzioni 3D e plastici in rilievo per ricostruire quanto accaduto quel giorno a Dallas. Per non parlare di quasi tutta la cinematografia esistente sulla vicenda che è stata mandata in onda dalle nostre tv in soli 2-3 giorni; e va precisato che i film su Kennedy sono davvero molti.

L’interesse che è esploso per la vicenda dell’uccisione di J.F.K. è stato a dir poco altissimo. Ed è anche entusiasmante vedere che la storia (intesa in senso lato, come scienza sociale), interessa così tante persone. Conoscere gli eventi passati è utile per sapere da dove veniamo. Non è una frase di convenzione che si dice tanto per dare un senso a queste righe. Conoscere gli avvenimenti passati è veramente utile oggi perché ci fa riflettere in merito a quanto abbiamo fatto noi (come umanità) in passato. Sia che si tratti di grandi imprese positive come il coraggio di quei tedeschi che il 9 novembre 1989 abbatterono un muro che divideva in due non una città o un paese ma il mondo stesso; o che si tratti di imprese meno gloriose come il lancio delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945 per porre fine alla Seconda guerra mondiale. Avvenimento, quest’ultimo, che dava l’inizio a quella cosiddetta “Guerra Fredda” tra USA e URSS che finirà proprio con la caduta di quel muro berlinese. 

Comunque, l’uccisione di Kennedy oggi appare come un “grande mistero” della storia dell’umanità perché nonostante l’assassino, Lee Harvey Oswald, sia poi stato arrestato (e a sua volta ucciso da Jack Ruby, proprietario di un night club di Dallas noto per i legami con la mafia), ogni persona sulla faccia della terra ha la sensazione che questa non sia la realtà. Le teorie complottiste sulla morte di JFK sono fin troppe; quelle che parlano di cospirazioni della mafia, della CIA e dell’FBI, dei sudisti o dell’industria militare o dello stesso Johnson, che succedette a Kennedy. Sono talmente tante che si capisce che la verità difficilmente riuscirà a venire fuori. La verità assoluta non esiste. O meglio, esiste, ma non potendola mai raggiungere è come se essa fosse in sostanza qualcosa di inesistente. Nel 2017 molti dei documenti secretati dalla CIA saranno declassificati e resi pubblici e sicuramente si avranno nuovi dettagli sulla vicenda. Ma a cosa serve immergersi in teorie complottiste ora, se poi alla fine la verità rimane nascosta e, purtroppo, irraggiungibile? I complottisti sono soliti dire che “dobbiamo pensare con le nostre menti” e non credere a quello che ci dicono. Ebbene, coloro che credono alle teorie dei complottisti sono proprio coloro che non pensano con le proprie menti e che assorbono con estrema passività tutto quello che gli viene detto in merito ad una vicenda, purché non sia la versione ufficiale fornita “dall’alto”. Non stiamo dicendo che la teoria di Oswald come unico colpevole sia da prendere per vera, anzi, crediamo che sicuramente vi siano fin troppe zone d’ombra che ci inducono a pensare che la morte di Kennedy era voluta anche da qualcuno “più grande” di un semplice pazzo solitario. Appare inoltre strano che il Presidente statunitense possa essere ucciso per strada senza che tutte le forze di sicurezza che sono solite scortarlo non riescano ad evitare una tale strage. Ma in fin dei conti non possiamo spremere le nostre fantasie all’estremo e dobbiamo adeguarci a quante fonti abbiamo a disposizione oggi. Quello che possiamo intanto fare sono delle valutazioni e delle analisi e cercare di capire come sarebbe oggi il mondo se JFK non fosse stato ucciso nel ’63 e avesse avuto la possibilità di essere eletto per un secondo mandato. Se veramente Kennedy voleva bloccare la guerra del Vietnam prima della sua escalation, se le sue politiche di integrazione fossero andate avanti e la segregazione razziale fosse finita negli Stati Uniti proprio durante gli anni di JFK, il mondo sarebbe lo stesso oggi? Sicuramente no. La guerra del Vietnam durò 15 anni e gli strascichi si ebbero anche più a lungo. Negli Stati Uniti il movimento per i diritti civili lottò fino alla fine degli anni ’70 con vigore e i primi veri risultati positivi si ebbero dopo parecchio tempo. Insomma, quello che oggi possiamo fare è semplicemente chiederci, con raziocinio e con molta cautela, quale opportunità il mondo ha perso quando il 22 novembre 1963, semplicemente “qualcuno” uccise Kennedy. 

Maged Srour

Mobina, deejay donna per le donne

La violenza sulle donne è un problema reale , basta accendere la TV o aprire i giornali per rendersene conto. La storia di oggi parla di una donna che ogni giorno combatte per le donne, lo fa come dj su una radio. Il suo nome è Mobina Khairandish e dal 2003 dirige in Afghanistan “A mani aperte”, il programma radiofonico che per tre giorni a settimana si rivolge alle donne afghane per aiutarle a cambiare le proprie condizioni di vita. Il nome della stazione radio Rabia Balkhi è il nome di una poetessa afghana del X secolo uccisa brutalmente dal fratello. In Afghanistan dove il 87% delle donne è analfabeta la radio è uno strumento potente lo avevano capito anche i Talebani che lo usano come maggiore mezzo di propaganda. Mobina racconta come ha deciso di intraprendere questa strada : «Frequentavo la scuola nella provincia di Balkh e vedevo continuamente ingiustizie e violenze contro le donne. Ricordo di aver iniziato a provare tanta rabbia e indignazione. Mi chiedevo perché nessuno si attivasse per cambiare le cose». Dal 2008 con l'aiuto di Action Aid un organizzazione umanitaria che opera in Afghanistan ha deciso di intraprendere un corso di consulenza paralegale per dare un supporto più concreto alle donne afghane che ne avevano bisogno. Le donne possono conoscere quali strumenti la legge mette a loro disposizione per la salvaguardia dei loro diritti, quali azioni legali possono essere intraprese per renderli effettivi, come cambiare un sistema sociale che sopprime il loro ruolo e la loro identità. Mobina racconta di quanto ha dovuto lottare contro le istituzioni che si opponevano ad un suo riconoscimento legale. Lo scorso 28 novembre Mobina ha preso parte ad un incontro alla Camera dei Deputati dove i parlamentari italiani e afghani hanno discusso del futuro dell’Afghanistan, un paese dove dominano ancora guerra e povertà, è necessario che l’Italia faccia la sua parte per garantire che i diritti delle donne siano priorità dell’agenda internazionale. Proprio in questi giorni sul sito di Action aid si svolge una campagna di raccolta firme contro la violenza delle donne afghane. 

Vedi anche:

Augusto Piazza
venerdì 6 dicembre 2013

Quando è un italiano ad emigrare in cerca di lavoro: il caso di Joele Leotta

Joele Leotta, originario di un paesino in provincia di Lecce, è stato pestato a morte nella notte del 20 ottobre scorso a Maidstone, capoluogo del Kent, Inghilterra. È stata confermata la testimonianza di Alex Galbiati, altra vittima del pestaggio, di come quella sia stata una “retata” a sfondo razziale. Quando i 9 aggressori hanno incontrato Joele, ed hanno iniziato a picchiarlo, si trovavano ancora in strada; quindi la vittima ha cercato una via di fuga nel proprio appartamento, dove si trovava Alex, ma gli esecutori hanno irrotto nel loro alloggio, li hanno insultati, pestati ed accusati di andare nel loro Paese e di rubargli il lavoro. Tra gli aggressori, ora in stato di arresto, sono stati identificati ben quattro lituani: Aleksandras Zuravliovas, di 26 anni di Beaumont Road, Tomas Gelezinis di 30 di Lower Stone Street, Saulius Tamoliunas di 23 di Union Street e Linas Zidonis di 21, senza dimora fissa. Queste le generalità deposte ieri in videoconferenza davanti ai giudici della Corte della Corona durante l’udienza preliminare, la stessa udienza che era stata rinviata per ben due volte consecutive per problemi tecnici. Per ora i genitori delle due vittime e tutte le persone che, come loro, gridano “giustizia”, dovranno aspettare il mese di aprile per assistere al dibattimento. Nel frattempo, Luca Galbiati, padre di Alex, teme che suo figlio possa essere interpellato in aula, anche se gli investigatori hanno già raccolto la sue deposizioni; nel caso dovesse succedere, hanno assicurato al ragazzo e ai suoi genitori che non dovrà più rivedere gli assassini del suo migliore amico. “Speriamo di poterlo riportare indietro quanto prima e celebrare presto i funerali, ma dal nostro consolato ci hanno anticipato che occorrerà del tempo, forse sei o sette settimane”, questa invece la dichiarazione di Ivan Leotta, padre del ragazzo massacrato. 

“W l’inghilterra!” cantava Baglioni negli anni 70, “pace, donne, amore e libertà!”, tutto ciò che Joele cercava e che ha soltanto potuto assaporare. Un ragazzo come tanti, determinato a cambiare le sorti del proprio destino, ha lasciato la propria terra per perseguire una speranza, quella stessa speranza che accompagna chi ha il forte desiderio di trovare in Italia ciò che Joele bramava in Inghilterra. Viene da pensare a quante persone extra-comunitarie, residenti nel nostro Paese, ricevano ogni giorno, ciò che Joele ha subìto in una sola notte. Il pensiero va anche ai nostri avi, emigrati all’estero in cerca di fortuna durante la Grande Emigrazione. La storia va avanti, cambiano le bandiere, le vittime, le circostanze ma solo una cosa rimane sempre la stessa: la xenofobia che ci caratterizza e che è radicata in noi da tempi storici, e la storia, almeno per ora, non ci ha insegnato nulla. Per ora rimane solo la speranza.

Marco Harmina

Si può strappare un sorriso parlando di mafia?

“L’onorevole Andreotti dice che l’emergenza criminalità è in Calabria e in Campania, Generale, ha forse sbagliato regione?”. Questa è la domanda che Arturo, alla sua prima intervista da giornalista, pone al Generale Dalla Chiesa. La cosa strana è che Arturo è un bambino e nella sua onesta ingenuità riesce a cogliere un punto fondamentale: i piani alti hanno deciso di porre l'attenzione su altro e spegnere momentaneamente i riflettori sulla Sicilia.



IL FILM. Primo film da regista, interprete e sceneggiatore per Pierfrancesco Diliberto, in arte PIF. Un'opera che racconta il suo rapporto personale e quello di un'intera generazione che ha vissuto contiguamente alla mafia. E' la storia di Arturo Giammarresi, bambino nato e cresciuto nella Palermo tra gli anni '70 ed il 1993, con il sogno di diventare giornalista ed una 'strana' passione per l'onorevole Giulio Andreotti, allora Presidente del Consiglio. In una recente intervista lo stesso PIF ha dichiarato: "Il problema è che a Palermo tutti sanno tutto. A 10 anni sapevo che in un certo bar si vedevano i mafiosi. Poi col tempo si è scoperto che i pentiti raccontavano che in quel bar c'erano raduni di mafia. Come è possibile che un bambino di 10 anni sa una cosa del genere e nessuno ha fatto niente?". La verità è che la generazione dei genitori di Arturo (e dello stesso PIF) ha in qualche modo protetto i propri figli conducendo una sorta di vita parallela. I bambini vivevano un'infanzia quasi del tutto inconsapevole di quello che stava succedendo, come se fosse normale, però drogata. "La mafia uccide solo d'estate" oppure "La mafia è come i cani, basta non dargli fastidio" sono proprio esempi di frasi e luoghi comuni usati dai genitori per sminuire l'operato della mafia agli occhi dei bambini. Si, perché non si negava la mafia, si negava la pericolosità della mafia. Un'atteggiamento questo che ha permesso ad alcuni di vivere una vita relativamente tranquilla, ma che ha lasciato da solo chi invece pensava che fosse giusto combattere e sconfiggere la mafia. Di una cosa però Arturo è certo: è innamorato di Flora. Se ne innamora tra i banchi di scuola e questo sentimento diventa importante e portante per raccontare questo tipo di storia e per far capire quanto si possa essere felici nel privato anche quando la cosa pubblica intorno è drammatica, tragica e collusa con la mafia.

Questo film è un'occasione per conoscere meglio e spiegare cos'è la mafia, indicando assassini e vittime, separando complici ed eroi, sempre usando però quella chiave di leggerezza ed ironia che è il marchio di fabbrica di PIF. Lo spettatore viene portato a guardare quella realtà con gli occhi di un bambino, trasformando quindi il racconto in un'opportunità per riflettere ed informare le nuove generazioni su una realtà e su un pezzo di storia, che forse è anche utile per leggere l'attualità.
Allego il link del trailer: http://www.youtube.com/watch?v=i7SfARhL9ws

Claudio Bellucci

MUFFIN: cioccolato e mele-cannella

Seconda settimana, seconda ricetta!
Immancabili per ogni rubrica culinaria-cicciona che si rispetti sono i muffin. Tipico dolce americano, ma ormai esportato in tutto il mondo. I muffin sono una valida alternativa per una colazione, una dolcezza pomeridiana o come dolce a fine pasto. La ricetta è molto semplice e soprattutto lascia spazio alla fantasia dato che i gusti possono essere molteplici. Io qui vi propongo una doppia golosità, i super classici al cioccolato e una variante mele e cannella.

INGREDIENTI:
lievito chimico in polvere 1 bustina
burro 150 gr
cacao in polvere amaro 70 gr
latte 180 ml
sale un pizzico
uova 4 medie 
zucchero 300 gr
vanillina 1 bustina
bicarbonato un pizzico
farina 300 gr
mele 2 
cannella 2 cucchiai (ma può variare a vostro gusto)
COSA OCCORRE:
fruste
pirottini (di alluminio o di carta)
teglia da muffin (non obbligatoria)

TEMPO DI PREPARAZIONE 15 min
TEMPO DI COTTURA 25 min

Preriscaldiamo il forno a 180 gradi. Sbattiamo il burro ammorbidito insieme allo zucchero e alla vanillina, aggiungiamo poi le uova (mi raccomando devono essere a temperatura ambiente) una alla volta e lavoriamo tutti gli ingredienti per bene. Setacciamo quindi la farina e mischiamola con lievito, bicarbonato e sale ed uniamoli al composto di uova e zucchero versando a filo il latte un poco alla volta. 

A questo punto separiamo in due ciotole il composto: in una aggiungeremo il cacao amaro in polvere e nell'altra aggiungeremo la cannella e le mele (dopo averle sbucciate e tagliate a cubetti).

Se disponete di una teglia da muffin: disponiamo negli appositi i pirottini in cui verseremo il composto alternado i gusti, riempiamo i pirottini più o meno fino a metà (non di più altrimenti lievitando in cottura l’impasto fuoriuscirà). Se non disponete di una teglia da muffin, no fear! Riempiamo i pirottini (sempre a metà) e adagiamoli su una semplice teglia.
Inforniamo per circa 25/30 min.
Entrambi i tipi di muffin possono essere spolverizzati di zucchero a velo una volta sfornati, a piacimento.
Per i più golosi invece propongo una piccola aggiunta per i muffin al cioccolato: nell’impasto potete mischiare delle scagliette di cioccolato fondente, renderanno il tutto mooolto più “cioccolatoso”.
Ed eccoli qui, caldi caldi!
Buon appetito!

Elena Guglielmino

Emergenza alluvioni: la Basilicata non esiste

È di un paio di settimane fa la notizia dell’alluvione che ha colpito alcune aree della Sardegna: 60 comuni tra le province di Olbia e Nuoro, più di 60 milioni di euro di danni, 16 i morti. Il disastro è avvenuto il 18 novembre scorso e la mobilitazione è stata tanta, così come le iniziative di raccolta fondi e gli aiuti dallo Stato. Sebbene l’attenzione dei media sia stata altissima nelle prime ore e nei primi giorni che hanno seguito la tragedia, c’è anche un’altra regione italiana che in quest’ultima settimana – come in pochi sapranno – sta vivendo delle giornate drammatiche: la Basilicata.
Spesso dimenticata o confusa col Molise o con chissà che altro, non sorprenderà un lucano sentirsi rispondere “Ah, sei lucano. Di Lucca?” oppure “Sì, lucano. E dove vivi a Lugano?” (incredibile ma vero!). Eppure la Basilicata esiste, ed in queste ore avrebbe bisogno di aiuto. E che i giornali ed i TG nazionali ne parlassero di più. Già lo scorso mese un’altra alluvione – passata ai più quasi inosservata – provocò ingenti danni nella provincia di Matera, eppure il riconoscimento dello stato di emergenza, la cui richiesta è stata presentata alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, non è stato ancora riconosciuto.
Negli ultimi giorni, sempre nelle stesse aree, altri violenti rovesci hanno flagellato la Basilicata, provocando in molti comuni danni ad abitazioni, aziende, strade, campi coltivati, infrastrutture, strutture pubbliche e private. A causa dell’esondazione dei fiumi Agri, Sinni e Basento al momento sono 180 gli sfollati ospitati nelle scuole, molte delle quali sono chiuse. Un treno sulla linea Potenza-Foggia è deragliato: feriti i due macchinisti e conseguenti rallentamenti ferroviari. A Montescaglioso (MT) una frana ha provocato l’innalzamento di diversi tratti di strada ed il crollo di un supermercato, fortunatamente vuoto in quel momento. «Attualmente si sta operando in tutti gli ambiti di competenza del governo regionale – ha dichiarato il presidente uscente della Regione, Vito De Filippo – ma necessitiamo anche di interventi da parte del governo nazionale». La Regione Basilicata ha infatti prontamente stanziato oltre un milione di euro di fondi, che sono però insufficienti.
La Giunta regionale ha così deliberato la richiesta di riconoscimento dello stato di emergenza per il territorio lucano, colpito dai violenti rovesci ed esondazioni tra il 1° e il 3 dicembre scorsi, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri attraverso il Dipartimento Nazionale della Protezione civile. «La gestione dell’emergenza sta dando i suoi frutti e dunque ringrazio prefettura, sindaci, forze dell’ordine e volontari», ha affermato l’assessore alla Protezione civile, Luca Braia. «Bisogna però insistere di più sul tema della prevenzione – ha aggiunto Braia –  e ora ci aspettiamo una risposta concreta del governo che dovrà seriamente considerare la situazione di grande difficoltà che sta attraversando la Basilicata». La speranza è che stavolta queste richieste vengano ascoltate dallo Stato.


Simone Rinaldi

E SE IL DNA TRASMETTESSE ANCHE LE PAURE?


Un videogioco di grande successo che tanti conoscono è basato sull'idea che nel DNA oltre all'informazione genetica siano scritti anche i ricordi che si trasmettono poi alle varie generazioni successive. Forse questa idea non è poi tanto lontano dalla realtà. A dirlo sono i ricercatori Brian G Dias e Kerry J Ressler dell'Howard Hughes Medical Institute a Chevy Chase, nel Maryland che hanno ideato un esperimento in cui alcuni topi di laboratorio erano indotti ad avvertire pericolo quando percepivano l'odore, molto simile all'aroma di ciliegia, di una sostanza chimica. I piccoli di questi topi hanno mostrato una risposta di paura maggiore all'odore di ciliegia che a qualunque altro odore, la cosa ancora più sorprendente è che anche la generazione successiva manifestava la stessa reazione. Studi neurologici hanno dimostrato che in questi topi si verificava una modifica nei geni deputati alla percezione dell'odore dovuta a marcatori epigenetici.

Il termine epigenetica viene utilizzato per definire tutte quelle modificazioni che intervengono sull'informazione genica senza però modificare la sequenza di DNA. Secondo gli autori, il risultato rappresenta un interessante punto di partenza per comprendere in che modo gli input ambientali raccolti da un individuo possano influenzare più o meno il genoma e i suoi meccanismi di regolazione. Ma in questo campo le ricerche sono ancora agli inizi. Si può riflettere però sul fatto che alcuni di noi hanno paura di situazioni o animali pericolosi che non hanno mai incontrato nella loro vita e che forse sono solo il retaggio di paure ancestrali.

Augusto Piazza

Gli accumulatori seriali e la tv un po' meno inutile.

Accumulatore seriale, qualcosa che è entrato prepotentemente nel vocabolario comune grazie (senza meraviglia) ad un programma televisivo; “Sepolti in casa”, un docu-reality trasmesso da Real Time nel quale si trattano storie di persone che accumulano qualsiasi tipo di oggetto, al punto da esserne sommersi.

Il termine esatto è disposofobia (dall'inglese to dispose, buttare via) e consiste nel raccogliere oggetti, spesso inutili, insieme all'incapacità di disfarsene. L'accumulo può avere spiegazioni diverse: la persona può considerare un oggetto di poco valore estremamente prezioso, ignorare la presenza di tali oggetti, riconoscerli come inutili ma non riuscire a liberarsene o, come accade spesso, dargli un valore affettivo per compensare il loro poco valore materiale.
Inevitabilmente la roba immagazzinata aumenta sempre di più, occupando gli spazi vitali e portando conseguenze preoccupanti: le normali attività quotidiane (pulire, lavarsi, cucinare, dormire) diventano sempre più difficili, fino ad arrivare a situazioni limite in cui l'ambiente abitativo è estremamente insalubre e pericoloso, mettendo a rischio l'incolumità degli abitanti.
Un aspetto che va a pari passo con l'aggravarsi della situazione è il deterioramento della vita sociale e lavorativa a cui le persone affette da tale patologia vanno incontro, il che rende difficile un eventuale aiuto, anche conseguentemente alle difficoltà che hanno i disposofobici a riconoscere la malattia e a farsi aiutare.
Le ricerche non hanno ancora chiarito se questa è un disturbo vero e proprio o è correlata ad altre patologie, non esiste ancora una definizione ufficiale, tant'è che nemmeno nel DSM (il manuale dei disturbi psichiatrici) vi si fa riferimento; alcuni punti in comune con il disturbo ossessivo-compulsivo ne fanno supporre un legame, ma è ancora tutto da verificare poiché chi soffre di accumulo compulsivo non risponde agli stessi farmaci. Di conseguenza anche la terapia è difficile poiché non si sa precisamente in quale campo agire ed in che modo.


Insomma, la tv non fa sempre male. Spogliata della sua tendenza alla finzione e all'esagerazione, a volte può essere utile a dare visibilità a problemi meno noti e che hanno bisogno di maggiori approfondimenti, o a sensibilizzare l'opinione pubblica su tematiche tenute “sepolte”, come è solitamente il disagio psicologico, e fargli capire chi sono in realtà quelli che definisce “pazzi”. 

Matteo Cardinale

Dancers among us

Be alive

Leggerezza. Grazia.  Agilità. Mistero. Il mistero di corpi che spiccano il volo, corpi in movimento.  La magia del poter esprimere se stessi, nelle azioni  quotidiane, con fare sorprendente. Non c’è trucco e non c’è inganno e tanto meno un trampolino. Cosa succede se dietro un gesto banale, meccanico, spesso scontato, nasce un’entusiasmante ispirazione?  A rispondere è Jordan Matter, attore, ex giocatore di basball e fotografo americano, autore del libro  Dancers Among Us. Un bestseller per il New York Times e per Barnes&Noble e per Amazon e Oprah Magazine, uno dei migliori libri del 2012. Quando la fotografia incontra la danza e la danza, la vita di tutti i giorni. La sorpresa sta nel dare  forma a ciò che si reputa impensabile e impossibile, a salti ed acrobazie. I ballerini sono narratori. Hanno la straordinaria capacità di rendere un momento vitale, energico e non solo su un palcoscenico. “Ballerini Tra Noi” è un susseguirsi di immagini di danzatori in azione, magari in una libreria, per strada, lungo i binari o in spiaggia.  Le sue foto, ambientate in giro per gli USA, inneggiano all’amore, all’amicizia, al gioco, all’esplorazione; l’importante è esserci, lì, in quel momento. Essere presenti, vivere appieno ogni istante. Lasciare ardere il fuoco che si ha dentro, un sentimento, positivo o negativo che sia. Be alive. Il potere evocativo di un’immagine aiuta a comprendere la felicità che c’è dietro una passione. Attimi di gioia, di tristezza, di speranza immortalati in un semplice scatto. Ciò non vale, però, esclusivamente per i ballerini professionisti del progetto: loro riescono a portare alla luce, con più facilità, quello che si prova, ma in ognuno di noi c’è un ballerino nascosto, una vena artistica, basta lasciarla urlare. Il linguaggio del corpo è un mezzo potente, altamente espressivo e perché non dargli libero sfogo mentre si aspetta la metro? Cantando e saltando sotto la doccia? Dancers Among Us è il bacio romantico in riva al mare, è la gioia sfrenata dopo un pomeriggio di shopping, il piacere di un libro quando purtroppo
si è reclusi. E’ una moglie arrabbiata che lancia vestiti dalla finestra, il saluto triste di chi sta partendo, il relax in un pomeriggio estivo. Una passeggiata nel bosco col proprio cane; la cameriera che ci serve al tavolo. E’ la gioia inaspettata della quotidianità. E’ vivere pienamente, celebrare la bellezza della vita con uno slancio, nel vero senso del termine, di originalità.
                                                                                                                             
                                                                                                           Giulia Ballini

Per saperne di più: http://www.jordanmatter.com/

Alcuni scatti significativi:

DENARO PUBBLICO: il caso Metro C

Burocrazia e lentezza d'azione, due elementi che contraddistinguono la linea esecutiva che dovrebbe portare, ormai nel 2018, alla conclusione della tanto attesa METRO C. L'idea di munire Roma di una rete di infrastrutture in grado di aumentare l'efficienza e la qualità del trasporto pubblico ha avuto inizio negli anni '90. Successivamente, nel corso del 2005 fu emanato il bando di gara per l'assegnazione dei lavori, vinto dall'associazione temporanea d'impresa (ATI) Metro C spa. A quasi sette anni dall'apertura dei primi cantieri, la Corte de Conti, con il procuratore regionale Raffaele De Dominicis, apre tre inchieste che dovrebbero indagare sulla veridicità di specifiche accuse mosse nei confronti della società costruttrice (METRO C Spa), della Roma Metropolitane (società' che dipende dal campidoglio e ha ruolo di Supervisor) e delle singole figure amministrative regionali, come i sindaci Marino e Alemanno. Lo scopo è individuare i responsabili della costruzione di un opera che viene definita "fatta male" dallo stesso De Dominicis e che con molta probabilità vedrà la sua ultima stazione a San Giovanni e non oltre, come stabilito nel progetto iniziale. Inquadrare i responsabili del rallentamento della costruzione della nuova metro, che porterebbe flussi finanziari maggiori nelle casse delle imprese costruttrici, è il filone principale dell'inchiesta, nonché quella più qualificante sotto il punto di vista dello sperpero di denaro pubblico, che segue con la questione archeologica e dei finanziamenti che stringono intorno al progetto un cappio sempre più stretto.

LA POLITICA NON C'ENTRA: MANO AI COSTI. La Corte dei Conti salva l'operato dell'amministrazione pubblica e dei sindaci di Roma Alemanno e Marino definendo il loro comportamento "corretto", parola che nel mondo della politica è difficile pronunciare a cuor leggero. La colpa risiederebbe allora nell'operato dei tecnici che, volutamente o non, hanno aumentato notevolmente il tempo previsto per la conclusione dell'opera, facendo così registrare un rincaro del progetto e, in ogni caso, evidenziando una sostanziale insufficienza dei fondi sinora stanziati e la necessità di trovare un nuovo finanziatore privato disposto a investire nella conclusione del progetto. La Metro C, figlia della nuova tecnologia e ispirata ai canoni delle pubbliche strutture delle capitali europee, è costata 3,7 miliardi di euro, spesa sostenuta per il 70% dalla Stato (noi) e per la restante parte dal Comune di Roma e Regione Lazio (sempre noi). Da qui il dubbio, fortificato dall'esperienza romana, che la commistione di interessi pubblici e privati può non rappresentare la giusta via per la pianificazioni di opere di così grande importanza e impatto. Fino a dove il perseguimento di lucro su attività volte al miglioramento o alla costruzione di beni pubblici può essere permesso?

E' chiaro, almeno in ottica economica, che l'attività d'investimento è necessaria per apportare migliorie e creare nuove opportunità di lavoro, meno chiaro è lo strumento mediante il quale tale investimento dovrebbe essere profuso nella società. Avere maggior controllo sui mezzi che attuano tale politica economica, e nel nostro caso si tradurrebbe nell'avere un forte potere di direzione, attuato mediante una solida presenza nel consiglio di amministrazione delle società costruttrici, potrebbe comportare una riduzione di quelli che sono atteggiamenti unicamente volti alla possibilità di trarre profitto personale, di certo non in linea con l'obiettivo di apportare un miglioramento usufruibile dall'intera comunità. Si riapre nuovamente il tema del ruolo dello Stato e delle Imprese private, del profitto incondizionato, e del poco rispetto che viene dimostrato nei confronti di chi le cose le vorrebbe "fatte bene".

Simone Di Marco

PROGETTARE: Come "guardiamo" la realtà

Chiedersi come la realtà venga percepita e avvertita è il primo passo per una progettazione consapevole e non fine a se stessa. In effetti si pensa, con troppa facilità, che ciò che vediamo (quindi ciò che esiste) sia un fatto oggettivo, altro da noi. E' invece il cervello, che attraverso i sensi, interpreta ciò che lo circonda.

Provate ad avvicinare il viso al monitor, chiudere l'occhio destro e fissare col sinistro la B. Adesso se vi allontanate progressivamente dallo schermo vedrete che ad un certo punto la A scompare, eppure esiste ed era visibile. (fig.1)
Questo è solamente un giochino che dimostra l'esistenza di un punto cieco nel nostro occhio, in cui passa il fascio ottico attraverso la retina; ma il fatto che il nostro cervello elabori a suo piacimento cosa deve succedere in quel punto, è l'emblema di quanto sia complesso l'argomento "vedere", "percepire".

Il cervello umano è pigro, abitudinario. Molte volte vuole vedere ciò che gli fa più comodo. Questo è dato naturalmente dalla sua evoluzione. Nell' illusione di Kanizsa (fig. 2) è più facile vedere un triangolo bianco sopra tre cerchietti neri anche se non vi è disegnato alcun triangolo, ma solo tre spicchi. Secondo la psicologia di Gestalt il cervello umano vede le cose come insieme e non come singole parti, ciò spiega come la realtà a volte è vista come una cosa che formalmente ha più senso!

"Può una cosa essere più piccola ma più grande?!" era lo slogan della Apple per l'I-Phone 5 in confronto al suo predecessore 4S. Tralasciando le trovate commerciali l'argomento è interessante. Partendo dal presupposto che ogni cosa non esiste da sola, ma è sempre in relazione con altre, la mente elabora questi dati ed a volte è ingannata; l' illusione di Titchener (fig. 3) lo dimostra. I cerchi al centro delle due figure sono identici, ma contornati da realtà differenti uno risulta più piccolo dell'altro.

La mente ha impiegato secoli a concepire il concetto di spazio nell'arte figurativa, eppure il comprendere se una "cosa" è vicina o lontana è innato, serve per sopravvivere. Ora è facile leggere lo spazio nell' esperimento di Hudson (fig. 4), ma lo stesso disegno presentato a alcune tribù africane o a dei bambini ha un significato diverso; questo perché in molte culture "più grande" significa "più importante" e non "più vicino.

Contrariamente a quanto detto quando a rappresentare lo spazio ci sono dei segni geometrici, come nell' illusione di Ponzo (fig.5), l'occhio è ingannato da due binari (linee in fuga) e anche chi non sa nulla di prospettiva legge il trattino in alto più grande di quello in basso.


Capire come ragiona il nostro cervello, come dialoga con l'occhio, con le mani, con le orecchie, stravolge l'arte creativa trasformandola in progettazione
La mera ispirazione spesso non basta!

"Guardare Pensare Progettare" Neuroscienze per il design - Riccardo Falcinelli - Stampa Alernativa & Graffiti


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Michele Visconti

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