venerdì 22 novembre 2013

La scena del terapeuta che, mostrando una macchia su un foglio, chiede al paziente  Cosa le sembra? l'abbiamo vista tutti, ormai è parte dell'immaginario collettivo. Resa celebre soprattutto da cinema e televisione (recentemente anche Google ha dedicato uno dei suoi doodle al creatore di tale metodo), perché perfetta per rappresentare lo stereotipo della seduta psicanalitica; infondo, va detto, un paziente munito di carta e penna intento a compilare un classico test non è poi così interessante da vedere.

Stiamo parlando del test di Rorschach, nato quasi letteralmente per gioco. Infatti, lo psichiatra svizzero Hermann Rorschach, che lo mise a punto negli anni Venti del secolo scorso, prese ispirazione da un gioco in voga alla fine del XIX tra la borghesia dell'Europa Centrale, nel quale i partecipanti facevano cadere alcune gocce d'inchiostro su di un foglio successivamente piegato a metà e, a turno, dicevano a cosa assomigliavano secondo loro quelle macchie.
Rorschach, che, tra l'altro, era appassionato di pittura, inserì tale gioco nell'ospedale in cui lavorava; non ci fu bisogno di molto tempo per capirne le capacità diagnostiche e, dopo aver realizzato migliaia di disegni, selezionò i dieci che, ancora oggi, compongono il test (cinque monocromatici, tre policromatici e due bicromatici).
Ma come può una macchia dire qualcosa del paziente? In effetti, la macchia in sé non dice nulla, ma quello che il paziente vede dice tanto. Non esistono risposte giuste o sbagliate, semplicemente bisogna dire quello che la macchia sembra. Col tempo si è capito che non è molto utile per fare diagnosi precise, ma si è rivelato sorprendentemente valido se si prende in esame la personalità in modo più generale (dopo che lo psicologo ha analizzato i vari aspetti delle risposte come, ad esempio, in che punto è stata vista la figura, se è tutta o solo un particolare della macchia, e così via). Questo spiega il suo successo ed il perché, dopo quasi un secolo, è ancora largamente utilizzato.

Nella pratica il test è ben diverso da come lo rappresentano i media (niente lettino, quella è roba da Freud), ha regole ben precise sullo svolgimento: ogni aspetto, dal tempo alla disposizione del materiale, da cosa dire al paziente al passaggio tra una tavola e l'altra, deve essere rispettato scrupolosamente. Il protocollo prevede che le tavole siano messe una sopra all'altra e date al paziente una alla volta nell'ordine prestabilito, e per ognuna dirà quel che vede.
Tutto questo per rendere il test il più neutro ed efficace possibile. E, proprio per mantenere la loro efficacia, le dieci tavole sono protette da una certa riservatezza per evitare che perdano il fattore sorpresa, che fa sì che le risposte siano estemporanee ed originali; solo chi somministra il test le conosce. Insieme ai pazienti che l'hanno già fatto, ovviamente. Quindi, l'unico modo per vederle è sottoporsi al test, il che potrebbe essere non solo un'esperienza positiva per conoscersi meglio ma anche molto interessante.


Matteo Cardinale

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