Archive for 2013-11-17
Catastrofi naturali. Oltre alle persone muore anche la dignità umana.
Ultimamente
abbiamo assistito, purtroppo, ad una “serie di sfortunati eventi” climatici
sparsi per il mondo. Dopo il disastroso tifone
che nelle Filippine ha portato morte
e distruzione mai visti prima in quel paese che pur di tifoni e tornado ne ha
visti nel corso della sua storia, abbiamo assistito ad altri catastrofici
eventi che ci hanno mostrato come in pochi giorni, in un’ora o in un attimo
tutto quello che ci circonda potrebbe essere distrutto da colei che
sostanzialmente non si potrà mai avversare: la natura. Nel
Midwest statunitense l’emergenza tornado ha fatto ripiombare gli americani
nell’incubo dell’uragano Sandy che arrivava proprio un anno fa. E in Sardegna i
temporali di una notte hanno praticamente messo in ginocchio un’intera regione
italiana, provocando vittime e dispersi. Nell’isola italiana è caduta in sole
24 ore la pioggia che solitamente sarebbe caduta in sei mesi. Ventiquattro ore per
stravolgere menti ed animi del popolo sardo e del resto d’Italia. Risulta molto
curioso, e per certi aspetti inquietante vedere come in così poco tempo possa
cambiare la vita e il destino di una persona se non di un popolo intero. Queste
catastrofi ci mostrano che purtroppo, quando la natura decide di agire
mostrando tutta la sua forza c’è veramente poco da fare e bisogna adeguarsi al
proprio destino.
Qui
vogliamo sottolineare però un altro aspetto. Solitamente, quando si presentano
di fronte ai nostri occhi eventi del genere, il senso di rabbia, frustrazione e
dolore provocati dalle conseguenze di questi fenomeni, creano in tutti quanti
una reazione di scontrosità. Ci
riferiamo al generale e generalizzato senso di critica e di “ricerca del
colpevole” che pervade le menti di tutti, o quasi. Intendiamo i dibattiti e le discussioni
che hanno luogo dopo tali vicende, che focalizzano tutta l’attenzione sulla
drammaticità della situazione e su quanto è accaduto in passato, senza pensare
a cosa si possa fare per rialzarsi, per ricostruire, per continuare a vivere,
per il futuro. Non si tenta quasi mai di trovare una via d’uscita alla
crisi, ma ci si focalizza solo su quanto appena accaduto e sul fatto che di
qualcuno è colpa. La colpa è dello Stato che non costruisce infrastrutture
sufficientemente forti per resistere ad un’alluvione; la colpa è dei soccorsi
che non arrivano mai in tempo; la colpa è di tutti coloro che non sono le
vittime, perché tutti potevano o dovevano fare qualcosa per poter evitare
questo. Tutto giusto, ci mancherebbe. Le vittime non ci sono solo per colpa
della natura e di nessun altro. Tanti e fin troppi esempi in passato ci hanno
mostrato che esistevano zone in cui non bisognava costruire case ed invece è
stato fatto, che esistevano strade e ponti costruiti con materiali che con una
pesante pioggia potevano crollare eppure erano lì da decenni. Gli esempi sono
davvero troppi, purtroppo. Ma colpevolizzare chi era (ed è) responsabile di
questi errori, che non vanno assolutamente, e ripeto, assolutamente,
minimizzati (perché hanno causato vittime umane), risulta essere poco utile.
Certo,
è giusto rendere giustizia alle vittime, ma qui vogliamo sottolineare il fatto che
spesso questa voglia di giustizia, che è legittima, doverosa e quanto mai
necessaria per garantire la sopravvivenza di quel che resta della dignità
umana, viene strumentalizzata per
altri scopi. La si strumentalizza nelle trasmissioni televisive per fare
ascolti da record, la strumentalizzano i politici per poter criticare i
governanti del passato e del presente. Questo strumentalizzare, criticare e
colpevolizzare, allontana tutti da quello che è l’unico vero obiettivo da
perseguire: la ricostruzione, il supporto e il far capire alle popolazioni che
hanno vissuto queste tragedie che non sono sole. Che il resto dell’umanità è fianco
a loro. L’attezione si sposta tutta sulla drammaticità del passato e si
allontana troppo, a mio umilissimo e modesto parere, dalla speranza sul futuro.
Si
tratta di una linea sottile, anzi
sottilissima, che si tenta di evidenziare: quella linea che demarca e divide
dall’apatia e sedentarietà di fronte a questi eventi e l’entusiasmo e la voglia
di agire per aiutare chi è colpito da un destino più sfortunato. Per fare un
esempio, questo entusiasmo lo hanno mostrato ieri (Giornata di Lutto nazionale
in Italia) molti cittadini di Cagliari che si sono recati nel nord della
Sardegna per aiutare il personale della Protezione Civile Italiana nelle
operazioni di soccorso e messa in sicurezza dei più sfortunati.
Maged Srour
L'uomo più indebitato del mondo: la storia di Jèrome Kerviel.
Derivati: the beauty or the beast? Negli ultimi quindici anni numerose società industriali e finanziarie hanno subito ingenti perdite legate all’utilizzo sempre più frequente, e spesso irrazionale, degli strumenti derivati. Alla luce della gravità del fenomeno e della velocità con cui gli effetti dello stesso si sono trasmessi all’economia reale, ci si è interrogati molto sulla loro natura destabilizzante. Richiamando un intervento di Robert C. Merton «It’s not derivatives that are the problem, it’s how they are used». Il problema non starebbe, dunque, nella natura intrinseca dei derivati, piuttosto nell’uso che nel corso degli ultimi quindici anni se ne è fatto. Analizzando i casi di debacle finanziarie di imprese non finanziarie si sarebbe, in una prima analisi, portati a ricondurre le perdite subite alla mancanza di conoscenza degli strumenti derivati. Eppure tale tesi verrebbe inevitabilmente confutata dall’analisi di debacle finanziarie di società che gli strumenti finanziari dovrebbero invece conoscerli.
Nel 2008 si stima che la perdita complessiva della Sociètè Gènèrale sia stata di 4.900 milioni di euro, che nello stesso anno annunciava di aver scoperto un ammanco di diversi miliardi di euro legato ad operazioni ad alto rischio non autorizzate (principalmente si trattava di future su indici europei). Al centro dello scandalo, definito come il più grande buco della storia finanziaria, c’è il giovane trader francese Jèrome Kerviel. Inquisito insieme ad altri esponenti della banca francese, arrestato e incarcerato per un breve periodo, il giovane trader (trentunenne all‘epoca) è infatti oggi l’unico dipendente della banca francese ancora sotto processo. Kerviel, l’uomo più indebitato al mondo o come amano definirlo i media francesi “trader impazzito” ha ribadito più volte nel corso delle diverse udienze che i suoi superiori sapevano delle operazioni rischiose poste in essere e che lui altro non era stato in quella vicenda che “vittima di una macchinazione” o meglio ancora “un criceto preso dalla ruota, che girava sempre più velocemente”.Secondo la ricostruzione del trader, sarebbe stato espressamente spinto a prendere enormi rischi così da poter scaricare su di lui le forti perdite legate al mercato dei subprime. La SocGe oltre a negare che Kerviel abbia agito per espressa volontà della stessa, lo ha anche accusato di aver manipolato la sicurezza informatica per proteggere le sue attività.
Possibile che l’attività del trader fosse passata inosservata? La stessa attività che nel 2007 aveva generato 1,4 miliardi di guadagni tramite operazioni rischiose? Questo è solo uno dei possibili esempi di “finanza delinquente” che evidenzia chiaramente la necessità di un sistema di controllo e sanzioni ovvero di un intervento sul piano legislativo per evitare che gli errori del passato possano ripetersi. Errori che nell’esempio proposto sono costati ai contribuenti francesi circa quattro miliardi di euro.
Beatrice Di Marco
Sensazioni e reazioni: come viviamo l’architettura
Siamo portati a vivere l’architettura, gli
spazi e le funzioni che ci vengono offerti dalla società, nel modo in cui
convenzionalmente dovrebbero essere vissuti. Gli spazi sbagliati in cui
viviamo, per abitudine, ci portano a confondere le funzioni con cattivi modelli
che la società e il mercato edilizio ci hanno imposto. Dovremmo abbandonare i modelli e le forme
che associamo per consuetudine ad una funzione ma che non la rappresentano
correttamente, e lasciarci guidare dalle sensazioni e dagli stimoli che quella
funzione ordinaria ci trasmette. Re-invertire il processo, liberandoci da
questi modelli “sbagliati” e dalle cattive abitudini divenute, per inerzia,
sistematiche.
Un esempio di quanto detto risiede nel progetto presentato in occasione dell’Expo mondiale del 2008, l’esposizione universale volta al ridisegno del tessuto urbano di Saragozza, dagli architetti italiani Carlo Ratti e Walter Nicolini. Il Sindaco della città ha richiesto ai progettisti un uso innovativo dell’acqua, elemento da sempre utilizzato in architettura e in urbanistica. I due architetti hanno presentato il Digital Water Pavilion che, considerato il primo caso di impiego dell’acqua come elemento urbano, ha offerto loro l’occasione per sperimentare, grazie all’uso della tecnologia informatica, nuove “applicazioni” dell’acqua in architettura, creando spazi mutevoli, fluidi e flessibili. Il padiglione occupa una superficie di 400 mq ed è caratterizzato da una struttura portante con pareti a cascata, composte da pixel d’acqua generati da valvole solenoidi che, controllate attraverso il computer, possono assumere forme differenti a seconda delle esigenze: rispondere in maniera dinamica ai comandi dei sensori, aprendosi e chiudendosi al passaggio dei visitatori; scomparire dando luogo ad un unico grande spazio; essere percorse da testi, immagini, pattern che scorrono dall’alto verso il basso. L’effetto è quello di una cascata d’acqua che si interrompe in alcuni punti specifici, creando una sorta di schermo nel quale i pixel che disegnano le immagini non sono luminosi, ma fatti di aria e di acqua. Inoltre, il tetto metallico dell’edificio, coperto da una sottile lamina d’acqua, è sorretto da dodici pistoni idraulici in acciaio, i quali ne consentono l’abbassamento o l’innalzamento (in caso di vento eccessivo, ad esempio, per minimizzare gli schizzi) o la chiusura completa, facendo scomparire l’intera struttura a fine giornata.
L’architetto e ingegnere Carlo Ratti racconta in un’intervista: «Una sera tutti i sensori del padiglione hanno smesso di funzionare, compromettendo così il normale meccanismo della struttura». E continua: «In realtà, quella sera, il “gioco” d’acqua è stato ancora più divertente, poiché tutti i bambini di Saragozza sono stati incuriositi da questo modo diverso di interagire con la struttura: le cascate d’acqua non si aprivano più al passaggio dei visitatori, ma creavano dei tagli e delle aperture attraverso l’acqua, nelle quali riuscire a passare senza bagnarsi». «Questo è molto interessante», conclude «perché architetti, designer ed ingegneri pensano sempre di sapere come le persone useranno le loro architetture, ma poi la realtà è imprevedibile».
Bisogna iniziare a pensare ad un’architettura che non sia semplicemente funzionale, ma che permetta di cambiare i punti di vista. Noi fruitori potremmo immaginare un nuovo modo di vivere, ripartire dai gesti che vorremmo compiere e l’architettura non sarà altro che il contenitore e il mezzo attraverso cui esprimere le nostre nuove sensazioni.
Federica Salvatore
La personalità che emerge da una macchia
La scena del terapeuta che, mostrando una macchia su un foglio, chiede al paziente “Cosa le sembra?” l'abbiamo vista tutti, ormai è parte dell'immaginario collettivo. Resa celebre soprattutto da cinema e televisione (recentemente anche Google ha dedicato uno dei suoi “doodle” al creatore di tale metodo), perché perfetta per rappresentare lo stereotipo della seduta psicanalitica; infondo, va detto, un paziente munito di carta e penna intento a compilare un classico test non è poi così interessante da vedere.
Stiamo parlando del test di Rorschach, nato quasi letteralmente per gioco. Infatti, lo psichiatra svizzero Hermann Rorschach, che lo mise a punto negli anni Venti del secolo scorso, prese ispirazione da un gioco in voga alla fine del XIX tra la borghesia dell'Europa Centrale, nel quale i partecipanti facevano cadere alcune gocce d'inchiostro su di un foglio successivamente piegato a metà e, a turno, dicevano a cosa assomigliavano secondo loro quelle macchie.
Rorschach, che, tra l'altro, era appassionato di pittura, inserì tale gioco nell'ospedale in cui lavorava; non ci fu bisogno di molto tempo per capirne le capacità diagnostiche e, dopo aver realizzato migliaia di disegni, selezionò i dieci che, ancora oggi, compongono il test (cinque monocromatici, tre policromatici e due bicromatici).
Ma come può una macchia dire qualcosa del paziente? In effetti, la macchia in sé non dice nulla, ma quello che il paziente vede dice tanto. Non esistono risposte giuste o sbagliate, semplicemente bisogna dire quello che la macchia sembra. Col tempo si è capito che non è molto utile per fare diagnosi precise, ma si è rivelato sorprendentemente valido se si prende in esame la personalità in modo più generale (dopo che lo psicologo ha analizzato i vari aspetti delle risposte come, ad esempio, in che punto è stata vista la figura, se è tutta o solo un particolare della macchia, e così via). Questo spiega il suo successo ed il perché, dopo quasi un secolo, è ancora largamente utilizzato.
Nella pratica il test è ben diverso da come lo rappresentano i media (niente lettino, quella è roba da Freud), ha regole ben precise sullo svolgimento: ogni aspetto, dal tempo alla disposizione del materiale, da cosa dire al paziente al passaggio tra una tavola e l'altra, deve essere rispettato scrupolosamente. Il protocollo prevede che le tavole siano messe una sopra all'altra e date al paziente una alla volta nell'ordine prestabilito, e per ognuna dirà quel che vede.
Tutto questo per rendere il test il più neutro ed efficace possibile. E, proprio per mantenere la loro efficacia, le dieci tavole sono protette da una certa riservatezza per evitare che perdano il “fattore sorpresa”, che fa sì che le risposte siano estemporanee ed originali; solo chi somministra il test le conosce. Insieme ai pazienti che l'hanno già fatto, ovviamente. Quindi, l'unico modo per vederle è sottoporsi al test, il che potrebbe essere non solo un'esperienza positiva per conoscersi meglio ma anche molto interessante.
Matteo Cardinale
Nuove riforme in Cina: più mercato, meno stato
Il Dragone Rosso cambia muta, o almeno promette di farlo. L’esito del
3° Plenum del Partito Comunista Cinese, tenutosi nella capitale tra l’8 e il 12
novembre, ha il sapore di svolta storica. La nuova classe dirigenziale a capo del Partito, rappresentata dal
presidente Xi Jinping, ha annunciato un nuovo piano politico decennale,
basato prettamente su riforme che preannunciano profondi cambiamenti nella vita
economica e sociale del paese.
A livello economico, l’impegno del governo è teso ad allentare il
controllo statale su importanti campi quali la finanza e la produttività
industriale, in favore di un sistema economico che si modelli più su quella che
è l’attuale situazione di mercato. Difatti gli scopi principali delle riforme
sono: lasciare che il mercato determini il più possibile i prezzi,
l’abolizione di alcuni monopoli statali e riformare le aziende pubbliche. La necessità di riforme così profonde sicuramente va cercata nello
spettro della crisi che recentemente si aggira minaccioso sulla Terra di Mezzo.
I dati di crescita del 7% del 2012, mostrano un importante calo rispetto al
vertiginoso sviluppo che ha accompagnato i cinesi sin dai primi anni 80. Le
paure maggiori sono legate fortemente ai primi accenni di sofferenza verso il
debito pubblico e soprattutto alla perdita di competitività industriale, minacciata dalla crescita continua e
prorompente dei nuovi paesi emergenti.
Non meno importanti sono le annunciate riforme sociali, che intendono
cambiare la legge che da anni crea numerosi dibattiti e antipatie verso il
governo cinese: la famigerata legge del figlio unico. Sin dagli anni 70, la
Repubblica Popolare Cinese ha dovuto fronteggiare il problema dello
spropositato incremento demografico, adottando un primo piano di pianificazione
delle nascite, che prevedeva la possibilità per una coppia ad avere al
massimo due figli. A partire dagli 80’, la legge divenne più restrittiva,
portando il limite ad un solo figlio, facendo eccezione però per coppie formate
da entrambe i coniugi figli unici e per le coppie residenti nelle zone rurali
che avessero concepito una femmina, in tal caso la legge prevedeva la
possibilità di avere un secondogenito. La politica di pianificazione delle
nascite ha cercato di assicurare al paese più popoloso del globo, un sensato e
consapevole equilibrio tra i cittadini e le risorse, garantendo un welfare che
arrivasse a salvaguardare il più alto numero di persone. Purtroppo nell’ultimo
decennio, lo stretto controllo demografico sta facendo emergere le sue falle,
presentando un paese con evidenti squilibri sociali e che tende
progressivamente ad invecchiare. Xi Jinping e soci per arginare la situazione,
sembra che intendano portare il limite di due figli anche per le coppie in
cui solo uno dei coniugi è figlio unico. Questa mossa aprirebbe un nuovo
scenario sociale, trasformando la classica famiglia tipo offerta dalla
propaganda del Partito, formata da quattro nonni, due genitori e un solo figlio. L’opinione pubblica festeggia anche per la dichiarazione dell’abolizione
dei campi di lavoro e la riforma sulla giustizia che porterà alla abolizione
della pena di morte per alcuni reati meno gravi, esaudendo le richieste di chi
vuole finalmente una Cina più democratica, che possa meritare, agli occhi del
mondo, la sua alta posizione a livello internazionale.
Facendo il punto della situazione, stemperando il comprensibile
entusiasmo che sta animando il popolo cinese nei confronti degli annunciati
cambiamenti, bisogna capire in che modo verranno applicate le riforme e se
realmente la Cina è pronta a intraprendere un sentiero tanto esaltante quanto
sconosciuto. Se le riforme veramente saranno applicate, il Pcc dovrà rivedere
il proprio ruolo in una società che muta rapidamente e confrontarsi con una
popolazione che chiede più spazio all’individuo e meno al “bene comune” o
all’“armonia sociale”. Il governo deve accettare, che con il passare del tempo,
non potrà più decidere o programmare ogni aspetto della vita politica e sociale
dei suoi cittadini, ma dovrà incominciare a fidarsi del suo popolo, che sempre
più sogna libertà mai assaporate. Comunque vada la Cina ha di fronte a se un futuro oscuro ma carico di
nuove aspettative, che forse la porteranno a vivere una nuova età dell’oro.
Mattia
“Bad news are good news”, il motto di ogni cronista
Le cattive notizie, si sa, corrono
veloci. Giungono ben presto nelle redazioni dei giornali e, in men che non si
dica, eccole sbattute sui quotidiani. Online o carta stampata, non importa. Quel
che importa è attirare l’attenzione dei lettori colpendoli nella loro
emotività. Se si considerano poi social
network come Facebook o Twitter, le notizie – quelle belle, ma
soprattutto quelle brutte – si
diffondono quasi “in diretta”.
Omicidi, suicidi, rapine, drammi
familiari, calamità naturali, attentati, stragi, ecc. E le reazioni di chi
legge sono le più disparate: sdegno, ribrezzo, collera, nausea. Sì, nausea:
perché molti sono davvero stufi di questo tipo di notizie. Oggigiorno si è così
tanto bombardati da fatti di cronaca che sembra che nel mondo non accada altro.
La realtà invece è un’altra: stando ai dati sulla criminalità, almeno in Italia
questa sembra essere diminuita negli ultimi 20 anni.
Come mai, allora, si ha la percezione
di una realtà completamente diversa? Di una realtà in cui il nostro prossimo è
pronto in qualsiasi momento a farci del male? Abbracciando un’idea di Umberto
Eco messa nero su bianco in un articolo de “L’Espresso” di pochi anni fa, potremmo
rispondere che i giornali oggi si trovano a dover riempire una media di 60
pagine al giorno e dunque a dover “sbattere il mostro” non soltanto in prima
pagina – come Bellocchio intitolava il suo film del ’72 – ma anche in seconda,
terza, e così via. Il risultato è quello di parlare dello stesso evento in più
articoli nello stesso giorno, con la speranza, anche grazie alla pubblicità, di
sopravvivere.
E, tanto per non farci mancare nulla,
a tutto ciò si aggiungano anche talk show
e trasmissioni televisive interamente dedicati a casi di cronaca nera e la
loro tipica smodata ricerca del particolare scabroso, del macabro. Ecco allora che,
più che approfondire, in questo caso si specula sulle disgrazie altrui.
Insomma, con la dovuta moderazione e
con le giuste finalità, informare i cittadini su quello che di brutto accade attorno
a noi è giusto. Non a caso, infatti, l’inchiesta giornalistica resta la forma
più nobile di giornalismo. Ma questa è un’altra storia.
Simone Rinaldi
Stamina: quando i sogni (non) sono realtà
Stamina,
il nuovo metodo che utilizza cellule staminali per curare malattie
neurodegenerative (e che a detta di alcuni risulta essere miracoloso,
mentre per altri rappresenta solo l’ennesimo flop stile “Di
Bella” ) sta scuotendo l’intera comunità scientifica. Il
metodo si propone di convertire cellule staminali mesenchimali
(cellule usate per la rigenerazione dei tessuti ossei e adiposi) in
neuroni. Le
cellule, in sintesi, vengono prelevate dal midollo osseo del
paziente, manipolate in vitro e successivamente reinfuse per via
endovenosa o midollare, nei paziente stessi, al fine di convertirle
in cellule nervose. La
tesi dell’effettiva efficacia del metodo è portata avanti in prima
istanza dal padre di Stamina, Davide Vannoni, in associazione con la
multinazionale Medestea, firmataria di un accordo con Vannoni
riguardo il Metodo stesso, e da Camillo Ricordi, esperto di trapianti
con l’organizzazione “The Cure Alliance".Ci
sono poi molte testimonianze di vari pazienti e di genitori di
piccoli pazienti, che attestano un netto miglioramento delle
condizioni fisiche dei malati, in seguito all’infusione di questo
tipo di staminali.
Sorge
allora spontanea la domanda: perché molti esponenti della comunità
scientifica nazionale ed internazionale ( tra cui lo stesso premio
Nobel per la Medicina 2012,Shinya Yamanaka) si stanno opponendo
fermamente al Metodo, tanto da richiederne la bocciatura da parte del
Ministero della Salute? "Una
terapia non è mai materia di opinione, è materia di dati
scientifici, è materia di sperimentazioni, è materia di risultati
misurabili; finché non esisteranno risultati misurabili e noti e non
segreti, non esiste nessuna terapia sulla quale esprimere opinioni,
non esiste nessuna terapia stamina. Questo
metodo, “presunto”, è stato usato per trattare un numero
anche relativamente alto di pazienti singoli. Finché i pazienti sono
singoli, non è tecnicamente possibile stabilire se una terapia ha un
risultato favorevole oppure, no. Chi lo afferma, ha l’onere di
provarlo […] Se esiste un’efficacia, la si dimostri, altrimenti
si rimanga zitti.” Questa
è stata la risposta del prof. Paolo Bianco, prof. Ordinario
all’Università “La Sapienza” di Roma in un’intervista ad
Ability Channel, e questa è effettivamente la principale antitesi apportata al
Metodo dai vari oppositori: senza dati scientifici, misurabili su un
gruppo di pazienti e non su pazienti isolati, non è possibile
attestare l’efficacia scientifica del Metodo. Inoltre,
la rivista “Nature” ha scoperto come Davide Vannoni, nel
tentativo di depositare il suo brevetto già nel 2010 (tentativo
vano, in quanto respinto), aveva usato delle immagini relative a
studi condotti da scienziati russi e ucraini, i quali avevano
studiato la possibile differenziazione di cellule del midollo osseo
in cellule nervose, ma con sperimentazione del tutto differente da
quella utilizzata da Vannoni.
Così, il Parlamento Italiano si è ritrovato a dover risolvere questa spinosa questione e il 15 Maggio 2013 è stato approvato l’avvio alla sperimentazione, finanziata dallo Stato. Entro il 21 giugno Vannoni avrebbe dovuto consegnare all’Istituto Superiore di Sanità tutti i documenti relativi al Metodo stesso, azione che però non è stata portata a termine fino al 1 Agosto.Intanto il Ministro della Salute Lorenzin ha nominato i membri del comitato che avrebbe dovuto occuparsi di seguire passo passo la sperimentazione.
Si
può quindi catalogare come terminata “l’avventura Stamina”? Come
ha affermato lo stesso Vannoni in un’intervista a Enrico Ferdinandi “Stamina
continuerà a curare chi ne ha bisogno, prima cosa perché abbiamo
150 persone in lista d’attesa all’ospedale di Brescia, che devono
ed hanno diritto di essere curati. C’è poi da dire che quello che
ci troviamo davanti è un mondo intero: perché rimanere ancorati nel
mare putrido di questa sanità italiana? Cercheremo di aprire
sperimentazioni anche all’estero, sempre nello spirito Stamina
ovvero gratuità per i pazienti e senza terapie a scopo di lucro.”
KM
Rehenes – Ostaggi
Elizabeth Aro e Silvia Levenson: l’allegoria
dell’ostaggio alla ricerca della sua libertà.
Ieri e oggi. Fascino barocco ed estetica del presente. Ad ospitare le installazioni delle due artiste argentine Elizabeth Aro e Silvia Levenson, dal 14 novembre al 6 dicembre 2013,sarà la Sala Santa Rita Rehenes, scelta tutt’altro che casuale, volta anzi a coniugare in un dialogo assolutamente non convenzionale, il fascino dell’identità barocca della Sala Santa Rita e gli innovativi linguaggi espressivi contemporanei. E’ il terzo appuntamento di “AUTUNNO CONTEMPORANEO”, un ciclo di opere site specific, giunto alla sua seconda edizione e curato da Giulia Giovanardi e Alexandra Gracco Kopp, promossa dall'Ambasciata Argentina in Italia. La diversità dei linguaggi visivi delle artiste è espressa dalle caratteristiche antinomiche dei materiali utilizzati nelle installazioni: mentre la Levenson sfrutta il valore simbolico del vetro, con la sua fredda immobilità, per evocare sensazioni di fragilità e ostilità negli oggetti della vita quotidiana, evidente è il pathos della Aro che fa costante riferimento al corpo, attraverso l’uso di materiali “caldi” come i velluti ed i tessuti broccati. L’apparente antinomia tra le due artiste, approda all’analisi della condizione esistenziale dell’essere ostaggio della quotidianità, metafora di costrizione che, però, si può sconfiggere.
Percorso della mostra
L’installazione Forever happy della Levenson riproduce un normale ambiente domestico, un “insospettabile” salotto di una qualunque casa contemporanea. Più ci si avvicina all’opera, più lo spettatore prova un senso di malessere, di disagio. Uno spazio di socialità della casa, di solito familiare ed accogliente è coperto da tessere vitree punteggiate da aculei filiformi: inaspettatamente l’ambiente si rivela distante, alieno, nemico. “Forever happy”, felici per sempre, a tutti i costi. Nella visione dell’artista l’uomo è costretto in una realtà caduca e fragile, permeata da tensioni latenti. Il ritmo frenetico e incessante della quotidianità, lascia spazio solo a un’opprimente felicità eterna, vista quasi come una condanna. Una prigione sociale questo mondo, troppo impegnato ad apparire perfetto e controllato; niente deve essere fuori posto. Ecco che di colpo tutto diviene ostile, lontano, estraneo.
Nell’opera Still life II,
viene offerta allo spettatore la cura per la felicità eterna: contenitori di
valium e xanax per esempio, posti su un freddo vassoio metallico, sono la
soluzione alla debolezza dell’animo, al vuoto interiore. Come per “forever
happy”, non c’è spazio per l’imperfezione, non c’è tempo per stare male: questi
elisir di felicità permanente ma apparente, placheranno i giudizi di una
società cieca.
Nella fotografia Rehenes de un pensamiento di
Elizabeth Aro, si rievoca la condizione di ostaggio: un uomo ed una donna sono intrappolati
in una massa di tessuto broccato. Si tratta di due cuori che sognano
utopisticamente, o di paure e ansie che prendono corpo? Un sogno che spinge
all’azione, o una prigione mentale che paralizza?
Nelle altre opere della Aro il dubbio comincia a
sciogliersi: l’immobilità delle figure di Rehenes lascia il posto al pathos
delle sculture in tessuto. In Todos los fuegos, el fuego, fiamme di velluto risalgono la parete, evocando
l’energia selvaggia, il movimento, la vita che si libera dalle ostilità e
fiorisce.
Lo stesso avviene nella scultura di tessuto Branches.
Una struttura ramificata di velluto rosso si articola lungo il pavimento diventando astratto disegno bidimensionale sulla parete, trasmettendo con forza la
dimensione di una vitalità che esplode.
Un dialogo artistico tutto al femminile. L’arte concreta,
materiale: per chi vuole mettersi in gioco e diventare parte attiva e
sollecitata del lavoro, alla ricerca di quell’impulso, di quella reazione, di
quella via di fuga dalle coercizioni della quotidianità.
Giulia Ballini
Dal 15 Novembre
2013 al 06 Dicembre 2013
ROMA
LUOGO: Sala Santa Rita
COSTO DEL BIGLIETTO: ingresso gratuito
TELEFONO PER INFORMAZIONI: +39 06 82077305/ 348 2696259
E-MAIL INFO: g.gnetti@zetema.it
SITO UFFICIALE: http://www.salasantarita.culturaroma.it
OGM: quando la "super" papaya salvò le Hawaii
Si è sentito parlare molto in TV e sui giornali a proposito di piante geneticamente modificate e del loro legame con le lobby agricole. È interessante parlare, però, anche di una storia che forse non tutti sanno.
Nel 1992 nella regione di Puna nelle Hawaii si diffuse un'epidemia che in breve tempo devastò la coltivazione della papaya. Le Hawaii sono uno dei più importanti produttori di questo frutto, e la sua coltivazione è un tassello fondamentale nell'economia del paese. La produzione fu ridotta dalle 26000 tonnellate annue alle 12000 in pochi anni. Il responsabile della devastazione dei raccolti era il Papaya Ringspot virus (PRSV). Contemporaneamente, alcuni ricercatori dell’Università delle Hawaii e di Cornell, in collaborazione con Dennis Gonsalves, responsabile del settore Ricerca del Ministero dell’Agricoltura degli Stati Uniti, cominciarono a lavorare su un progetto per generare e selezionare piante di papaya resistenti al virus.
Lo studio si basava sull'inserimento nel genoma delle piante del gene che codifica per una proteina del capside (involucro esterno) del microrganismo. Si era infatti visto che la sovraespressione di questo gene nelle piante impediva la replicazione del patogeno. La prima pianta resistente al PRSV fu selezionata già nel 1992 ma si dovettero aspettare sette anni per l'autorizzazione da parte dell’EPA (l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente), dell’FDA (Food and Drug Administration) e del Ministero dell’Agricoltura alla commercializzazione dei semi delle piante OGM. Nel 1998 iniziò la distribuzione gratuita dei semi per i contadini di Puna che ne facevano richiesta. Nel 1999 cominciarono i primi raccolti di papaya OGM, che incontrò i favori dei consumatori. Nel 2001 la produzione di Papaya era risalita a 23.000 tonnellate. L’industria della Papaya, coltura tipica delle Hawaii era stata salvata dalla distruzione. Inoltre la coltivazione della papaya resistente ridusse l'epidemia anche nelle piante non OGM. La papaya OGM è ora venduta sia negli Stati Uniti che Canada mentre l'Europa accetta solo la varietà non OGM.
Questa storia è un esempio di come ogni nuova tecnologia e scoperta può fare del bene se viene impiegata con sapienza e rispetto dell'ambiente. Anche in Italia, una apertura alle biotecnologie potrebbe sviluppare ambiti di ricerca per la tutela delle specie agricole IGP e di tutti quei prodotti ortofrutticoli che hanno reso il nostro paese famoso ed esportatore in tutto il mondo. Un primo caso di applicazione di tale tutela potrebbe essere il pomodoro della varietà San Marzano, ormai scomparso dai nostri mercati a causa di un epidemia simile a quella delle Hawaii. Questa volta il colpevole è un altro virus :il CMV (Virus del Mosaico del Cetriolo). Esperimenti in laboratorio hanno già dato esiti positivi ma attualmente la coltivazione in serra è proibita dalla legge italiana e dalle normative europee.
Augusto Piazza
Tag :
Scienze
Punto&Virgola - The blog. Lettera al lettore.
Partiamo dalla fine, anzi dal futuro. Punto&Virgola - The blog sarà la curiosità di Economia, sarà la strana storia raccontata dai ragazzi di Cronaca. Sarà l'approfondimento scientifico e sarà la foto artistica e non. Sarà quella cosa successa chissà dove e chissà per quale motivo e sarà la recensione di quel libro che avresti voluto leggere. Punto&Virgola - The blog sarà la voglia di prendere una posizione, la propria, e di mettere al centro dell'attenzione la passione, la nostra.
Passione. Amicizia. Voglia di fare. Interessi comuni. Ecco da dove nasce e cosa lega i componenti di questo progetto. Punto&Virgola-The blog sarà il frutto dell’impegno di un gruppo di ragazzi che hanno voglia di mettere nero su bianco le proprie idee e le proprie curiosità per condividerle con quanti seguano gli stessi interessi. Nell’era della specializzazione e dell’informazione, proviamo ad offrire una pagina di divulgazione generalmente specializzata. Perché molti di noi sono laureati e/o specializzandi in diversi settori, e chi non lo è (o non lo è ancora) porta con sé un bagaglio culturale non indifferente costruito su quello che resta la "missione" del blog: l’amore per la conoscenza che ci accomuna tutti. Questo a sottolineare non il valore della conoscenza dovuto ad una laurea, ma al contrario una conoscenza che assume valore perché passione.
Dicevamo, partiamo dal futuro. Perché dietro questa iniziativa ci sono l'esperienza e la volontà di quelli che scriveranno. L'esperienza e la volontà di un gruppo di ragazzi. Il futuro.
La Redazione
Passione. Amicizia. Voglia di fare. Interessi comuni. Ecco da dove nasce e cosa lega i componenti di questo progetto. Punto&Virgola-The blog sarà il frutto dell’impegno di un gruppo di ragazzi che hanno voglia di mettere nero su bianco le proprie idee e le proprie curiosità per condividerle con quanti seguano gli stessi interessi. Nell’era della specializzazione e dell’informazione, proviamo ad offrire una pagina di divulgazione generalmente specializzata. Perché molti di noi sono laureati e/o specializzandi in diversi settori, e chi non lo è (o non lo è ancora) porta con sé un bagaglio culturale non indifferente costruito su quello che resta la "missione" del blog: l’amore per la conoscenza che ci accomuna tutti. Questo a sottolineare non il valore della conoscenza dovuto ad una laurea, ma al contrario una conoscenza che assume valore perché passione.
Dicevamo, partiamo dal futuro. Perché dietro questa iniziativa ci sono l'esperienza e la volontà di quelli che scriveranno. L'esperienza e la volontà di un gruppo di ragazzi. Il futuro.
La Redazione
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